Penultimo appuntamento di questa stagione del gruppo di lettura = due ore di discussione piena piena.
Due ore di discussione su un libro che, per di più, ha messo d’accordo praticamente tutte e tutti, alias: L’Università di Rebibbia.
Ma Goliarda Sapienza fa quest’effetto, c’è poco da dire.
Centotrentotto pagine che molti di noi hanno sottovalutato, illudendosi che la brevità del libro corrispondesse ad una lettura veloce, esauribile in poche sere. Ma, cari i miei piccoli lettori, non se la scrittura è quella sapiente della nostra amata Goliarda. E questo non perché sia una prosa ostica o respingente, tutt’altro: lo stile è così poetico, armonioso e denso di immagini, che risulta difficile non soffermarsi a leggere e rileggere ogni riga per essere sicuri di non perdere neanche una goccia della bellezza che trasuda.
Quello che lo rende così speciale, poi, è che tutta questa meraviglia è contenuta in un libro che parla di carcere.
Ad alcuni, pur constatando l’ineccepibilità della scrittura, questo accostamento è risultato stridente, a tratti supponente. Pure all’epoca la sua visione del carcere è stata tacciata di eccessivo romanticismo e idealizzazione, con tutti questi personaggi a tratti fiabeschi e questi dialoghi quasi surreali. Anche la classe sociale da cui proviene Goliarda Sapienza ha un peso, una classe agiata e privilegiata che non si può nascondere e che ha reso la sua esperienza carceraria inevitabilmente differente rispetto a chi viene dalla strada.
Ma tutto questo l’autrice non l’ha mai negato: è una scrittrice, la romanticizzazione e le licenze poetiche che (forse) si è concessa derivano dal fatto che si tratta di un romanzo, non di un saggio antropologico. È anche ben cosciente del proprio status sociale, non lo nega e anzi, lo dichiara più volte nel testo, proprio per riflettere sulle differenze e sui problemi che pervadono la nostra società. Tutto questo mantenendo uno sguardo onesto, sensibile, e profondamente umano, da cui dovremmo solo imparare.
Responso: leggete Goliarda e godetene tutti.