I beati anni del castigo

Autrice: Fleur Jaeggy
Editore: Adelphi
Pagine: 107
Prezzo: 11,00€

 

L’irrimediabile giungeva a me in una delle più belle e limpide giornate dell’anno

Nella presentazione di Orny si legge che ama oltremodo gli avverbi. Sempre stato.
E sapete perché? Perché gli avverbi indicano il come, e il come fa sempre la differenza su tutto. Un fatto, senza gli avverbi a corredo che ne possano indicare modalità, tempistiche, intenzioni, è solo un fatto. È l’assolo di Comfortably Numb scritto sul pentagramma senza Gilmour che lo suoni, è una foto in bianco e nero del carnevale di Rio, sono delle lasagne dietro una vetrina.

Fleur Jaeggy è l’avverbio. È il come. Non importa cosa stia raccontando, i fatti sono solo fatti.
Ne I beati anni del castigo (Adelphi, 1989) il fatto è che c’è una ragazza che trascorre buona parte della sua infanzia e adolescenza tra molteplici collegi svizzeri. Due righe.
Quello che ci mette Fleur Jaeggy sono i contorni, i colori, gli avverbi che fanno la differenza, che rendono questo fatto diverso da qualsiasi altro, che distinguono lei da chiunque altro, e che portano a tappezzare un pezzo di cuore con queste pagine.
Quasi inconsciamente e inevitabilmente.

“Ogni mattina mi alzavo alle cinque per andare a passeggiare, salivo in alto e vedevo uno spicchio d’acqua dall’altra parte, giù in fondo. Era il lago di Costanza. Guardavo l’orizzonte, e il lago, ancora non sapevo che anche su quel lago ci sarebbe stato un collegio per me. Mangiavo una mela e camminavo. Cercavo la solitudine e forse l’assoluto. Ma invidiavo il mondo.”