Autrice: Gabriella Dal Lago
Editore: 66thand2nd
Pagine: 176
Prezzo: 15,00€

Quella dei millenials è una generazione complessa da raccontare: cresciuta a dogmi, etichette, definizioni, ritrovatasi in una realtà diversa, fluida, irregolare. La generazione precedente era terra, la nuova è acqua, la nostra ha vissuto il passaggio dallo stato solido allo stato liquido. Contiene entrambi: la memoria di un passato roccioso, rigoroso, e quella di un presente inafferrabile, mutevole.

Il dubbio e le sfumature si sono insinuate lì dove dovevamo saperci determinare con chiarezza e colorare a campiture. Così anche ora, pur al centro del cambiamento, siamo vittime di un retaggio che vuole una presa di posizione netta, anche nella trasformazione.

Gabriella Dal Lago, con Estate Caldissima (ed. 66thand2nd), mettendo insieme sette persone, un gatto e un bambino per una settimana, riesce con autenticità e naturalezza a raccontare questo. A raccontarci. A smussare gli angoli, a umanizzare i dubbi, a legittimare le contraddizioni di cui spesso ci sentiamo colpevoli. E lo fa senza urlarle, senza evidenziarle, senza volerle giustificare tramite la spettacolarizzazione, ma con semplicità e comprensione, inserendole nel quotidiano alla pari di tutto il resto.

“E questo è in definitiva il problema di leggere nei gesti degli altri quello che noi vogliamo leggere, e in definitiva questo è il problema di amare male, non mettere mai davvero a fuoco la persona che si ha davanti ma sovrascriverla perennemente con l’immagine che ci si è creati, incastrarla in un racconto senza vederla tridimensionalmente, come un’indagine viziata dai sospetti iniziali, una ricerca di indizi volta a confermare una tesi più che a perseguire la verità”.

La verità è che quella verità non esiste. O meglio, è in continuo mutamento, e noi cambiamo con lei. Questa citazione è ciò che più mi porterò dentro e ciò che più ci descrive, quello di cui siamo vittime e carnefici allo stesso tempo, imprigionati nella tensione costante che ci spinge, da un lato, a cercare forme regolari, definizioni precise, ciò che conosciamo o crediamo di conoscere, e dall’altro, a mettere tutto in discussione, farci acqua, lasciarci sorprendere da immagini, strade, nomi nuovi, ancora da inventare.

Autore: Ray Bradbury
Editore: Mondadori
Pagine: 272
Prezzo: 14,50€

 

Il vino era l’estate catturata e messa in bottiglia

È l’estate del 1928, e Douglas Spaulding, un bambino di dodici anni di Green Town, Illinois, si accorge per la prima volta di essere vivo.
Una scoperta folgorante, che porta lui ad osservare tutto con nuovi occhi, ad allertare i sensi, a voler ricordare, e riporta noi alle nostre estati bambine, in cui forse non lo sapevamo di essere vivi, ma le immagini, i profumi, i suoni si stavano imprimendo nella nostra memoria ugualmente, e ora riusciamo a rievocarle con una nostalgia che ti prende l’anima e te la spreme come i limoni a luglio.

Le cicale, le scarpe da ginnastica nuove, la spensieratezza, le corse a perdifiato, l’erba tagliata, i grandi seduti fino a tardi davanti casa a parlare nel fresco della sera, i gelati, il cinema. Tutto dev’essere fermato, scolpito nella mente, scritto in un quaderno che si divide in Riti e Cerimonie da una parte, e Scoperte e Rivelazioni dall’altra.
La cerimonia del primo vino di tarassaco imbottigliato, del primo giro in altalena, la scoperta che i vecchi non sono mai stati bambini, che la mezzanotte farà sempre paura, che si può viaggiare nel tempo, che le persone ci lasciano.

È l’estate del 1928, lo è per Douglas; per suo fratello; per il nonno, che benedice l’esistenza dei tosaerba; per Leo Auffmann, che prova a costruire una macchina della felicità; per le signorine Fern e Roberta, che hanno comprato una macchina verde e forse hanno investito qualcuno; per il colonnello Freeleigh, che chiama Città del Messico perché qualcuno metta il telefono alla finestra e si possano sentire i rumori della strada; per il signor Jonas, che nel suo carretto ha sempre qualcosa di cui qualcuno ha bisogno.

È l’estate del 1928 ma dentro ci sono tutte le estati, compresa questa, con tutte le loro prime volte e tutte le loro rivelazioni, se solo, tra un sorriso nostalgico e un ventilatore acceso, siamo ancora disposti ad accorgerci che siamo vivi.

Autrice: Alba De Cèsepdes
Editore: Mondadori
Pagine: 251
Prezzo: 13,50€

 

Più mi conosco e più mi perdo

“Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L’opera dello scrittore è soltanto uno strumento ottico offerto al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso”

Come ha descritto magistralmente Proust, il potere magico e salvifico della lettura è proprio questo. Ciò che rende possibile l’incantesimo, però, è il processo (a volte del tutto inconsapevole) di analisi e liberazione che avviene, prima, in chi scrive.

Lo dice bene Nadia Terranova nella sua prefazione a Quaderno proibito di Alba De Céspedes: “scrivere è sempre un atto sovversivo, è riapparizione dei conflitti anche quando si vogliono azzerare. La scrittura non è mai innocente, non sa stare al suo posto ed è tutto tranne che astratta, tracima sui corpi, riverbera sui visi.”

Questo è quello che Valeria Cossati, donna di quarant’anni in un’Italia degli anni ‘50, non sapeva prima di comprare il quaderno nero che dà il nome al romanzo, ma che avrebbe scoperto in pochissimo tempo, annotando in quelle pagine ciò che prima, non solo non aveva mai detto a nessuno, ma neppure mai pensato. Dal momento in cui acquista questo quaderno, mossa da un istinto e da un desiderio repentino, compiendo un gesto proibito, sottobanco, Valeria comincia a scoprirsi. Si rivela lentamente a sé stessa, mette in discussione la sua figura di moglie, di madre, di donna, tutto ciò che è stata e quello in cui ha creduto fino a quel giorno. L’atto di scrivere, la nuova Valeria in cui sprofonda sempre più, queste continue scoperte la sgomentano e la attraggono al tempo stesso,  come una seduta di terapia sfinente, al termine della quale potremmo aver trovato la liberazione, una nuova visione della vita, insieme al crollo di ogni nostra certezza.

Alba De Céspedes con Quaderno proibito (anno 1952) ci ha fatto dono di un libro all’avanguardia, commovente, di un’umanità e rara, onesto, lucido pur nelle sue contraddizioni, nelle verità e nelle menzogne che la protagonista si racconta. Bugie che capiamo, perdoniamo e che sappiamo subito riconoscere, perché, tornando a Proust, mentre Alba e Valeria scrivono, noi leggiamo noi stessi.

Autore: Stig Dagerman
Editore: Iperborea
Pagine:
Prezzo: 7,00€

 

La mia vita non è qualcosa che si debba misurare

William Morris, artista e scrittore tra i fondatori del movimento delle Arts and Craft, aveva identificato due tipi di lavoro: uno buono e uno indegno. Un lavoro, per essere buono, doveva avere insite tre speranze: la speranza del riposo, la speranza del prodotto e la speranza del piacere di praticare il lavoro stesso.

Questo lo scriveva nell’Ottocento.
Il secolo successivo ha distrutto ogni buon proposito al riguardo.
Il Novecento, infatti, è stato il secolo in cui la società occidentale ha cementificato il concetto che la realizzazione individuale possa arrivare solo tramite il lavoro, senza speranza di sorta.
Anche il nostro percorso di studi dev’essere in funzione delle possibilità lavorative che ne deriveranno, non sono contemplabili scelte fatte per il mero piacere della conoscenza. Il nostro sapere deve potersi tradurre in profitto.

Caro il mio capitalismo, mi dispiace dirtelo ma hai tirato troppo la corda. Rinunciare a quelle tre speranze è diventato sempre più insostenibile, e appena ci fermiamo (o siamo costretti a farlo) diventa lampante.
Soprattutto rinunciare alla speranza del riposo, che spesso non è data neppure a chi fa un lavoro che ama, che a quel punto si sente quasi in colpa a reclamarlo.
Eppure è proprio lì che sta la nostra libertà.

Ed è qui che affonda la lama lo scrittore anarchico svedese Stig Dagerman in quello che viene considerato il suo testamento spirituale, ricordandoci che noi esistiamo per vivere, e che nessuno ha il diritto di esigere da noi così tanto da toglierci la voglia di farlo.

𝐼𝑙 𝑛𝑜𝑠𝑡𝑟𝑜 𝑏𝑖𝑠𝑜𝑔𝑛𝑜 𝑑𝑖 𝑐𝑜𝑛𝑠𝑜𝑙𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 è un libriccino di poche pagine che dovremmo leggere tutti, legarlo al comodino, aprirlo ogni qual volta lo sconforto abbia la meglio.
È la scossa che ci risveglia, il monito che ci invita a fermarci, qualsiasi cosa stiamo facendo, che ci esorta a “deporre il fardello del tempo dalle nostre spalle, e, con esso, quello delle prestazioni che da noi si pretendono.”

Leggetelo, regalatelo, sottolineatelo, imparatelo a memoria.
Che le sue parole diventino consolazione prima, e linfa vitale poi.

[Canzone di accompagnamento alla lettura: Fruits of my labor di Lucinda Williams]

Autrice: Belén López Peiró
Editore: La nuova frontiera
Pagine: 144
Prezzo: 14,90€

 

Non ti fare problemi a indossare i tacchi

Ci sono cose che temiamo così tanto da aver paura di dirle perfino a noi stessi. Abbiamo paura che anche solo pronunciando delle parole possiamo contribuire ad affermare la realtà, una realtà che a volte è davvero orrenda.

Nel suo romanzo d’esordio Belén López Peiró parte proprio da questo: da un silenzio così assordante da dover essere colmato, per far sì «che laddove vi era stato silenzio ora ci fossero grida, grida di dolore, di tristezza».
E infatti, le parole che usa Peirò sono crude, spietate: parole a cui spesso non aveva nemmeno pensato prima di dover raccontare la sua storia, prima di trovarsi di fronte a un foglio di carta bianco e dover scrivere una denuncia di abuso sessuale. Davanti a quel foglio sente che non c’è un linguaggio adatto per descrivere ciò che ha passato e può fare una sola e unica cosa: costruire il suo linguaggio, portare le parole fino al limite, riempirle e svuotarle di significato, lacerarle e ricucirle, inserirle in un nuovo circuito di senso.

Queste parole si riversano nella scrittura come torrenti in piena che stanno per esondare e non si sa quali argini andranno a distruggere. Il gorgoglio di questi torrenti è dato infatti dalle tante voci che partecipano a costruire la narrazione di questo romanzo: la voce sospettosa dei parenti, quella tecnica degli atti giudiziari, quella accusatoria di chi ha coperto l’abuso, quella di chi le ha chiesto perché tornasse ogni estate nella casa dello zio che ha abusato sessualmente di lei dai 13 ai 17 anni.
E tutte queste voci parlano e si intrecciano, ci disorientano, ci fanno mescolare verità e menzogna.
Ma ad un certo punto la sua voce riesce ad emergere sopra il brusio delle altre e, attraverso il potere della scrittura, riesce finalmente a sciacquarsi la bocca da tutte queste parole infette, disgustose, amare.

In Argentina, grazie alla pubblicazione di questo libro, molte donne si sono convinte a sporgere denuncia e il testo è stato adottato nelle scuole e nei corsi di formazione sulla violenza di genere.
Perché il personale è politico e la storia di una diventa la storia di tutte, soprattutto di quelle che non hanno mai potuto trovare le parole per raccontare.

Autrice: Amparo Dàvila
Editore: Safarà
Pagine: 144
Prezzo: 16,50€

 

Siamo sole, è vero, ma piene di odio

Le case che abitiamo hanno l’ambizione di essere belle e accoglienti: ci sforziamo per dare loro un aspetto di rifugio, di spazio sicuro in cui tornare, di luogo in cui, varcata la soglia e tolte le scarpe, possiamo camminare a pieni nudi e non aver paura di sentire freddo.

Ma non tutte le case sono così: alcune dentro hanno un’altra casa, un altro spazio che non immaginavamo esistere.
Certe case, infatti, hanno il pavimento che, scricchiolando, ci fa volgere subito lo sguardo all’indietro con la paura di scorgere una presenza sinistra alle nostre spalle. In altre, con le finestre aperte, sentiamo i rumori vaghi della notte, fino a che non ci pare di distinguerne uno, che da rarefatto si fa sempre più vicino, più minaccioso e inquietante. In altre ancora, la mattina ci si sveglia dal sonno con gli occhi annebbiati e la sensazione che i sogni che abbiamo fatto non siano i nostri ma siano infestati.
Allora ci stupiamo che la paura risieda proprio nelle nostre case.

Le case che affollano i racconti di Amparo Dávila, infatti, sono ambienti domestici qualsiasi, ma è come se durante la notte fosse sopraggiunto qualcuno e le avesse costellate di specchi che rifrangono, amplificano e deformano le paure dei personaggi, facendo emergere un non so che di rimosso, qualcosa che era familiare e che ora viene inevitabilmente svelato.
Le pareti e le stanze si impregnano di ombre inquietanti, riflessi perturbanti, voci sgradevoli e, sebbene sappiamo che potrebbero essere inganni della mente, non per questo dubitiamo che esistano.

Il patto che accettiamo di firmare con l’autrice è proprio questo: ammettere che nel nostro rifugio possa irrompere il mistero, il pericolo e sapere che a volte non possiamo decifrarlo o risolverlo perché le presenze, le ossessioni e i mostri sono soltanto una storia tra tutte le nostre storie nascoste, e che i mostri, anche se talvolta non hanno forma, nome e voce, non per questo ci devono incutere meno timore.

Anzi, è proprio spiando da questi buchi della serratura che emerge un mondo sommerso, un mondo in cui siamo entrati senza nemmeno sapere di avere la chiave.

Autrice: Anna Toscano
Editore: Electa
Pagine: 96
Prezzo: 12,00€

 

Quel silenzio che mi attende da sempre

Katherine Mansfield diceva: voglio essere tutto ciò che sono capace di diventare.

Non so se Lisetta Carmi abbia mai letto la Mansfield, ma credo che abbia vissuto esattamente secondo questo principio. Non con ambizione, esuberanza o prepotenza, ma con semplicità, coerenza ed estrema umanità. Si è semplicemente ascoltata. Come dice Anna Toscano in questo meraviglioso piccolo volume della collana Oilà di Electa Editore, Lisetta Carmi è sempre stata fedele alle sue mani, ai suoi occhi, al suo cuore.

È stata prima pianista, poi fotografa, per poi aprire e gestire il primo ashram d’Occidente, in Puglia. Ognuno di questi passaggi è stato armonico, naturale, inevitabile.
Come ha detto lei stessa “posso dire di essere una persona libera di fare quello che è giusto fare nel momento giusto”.

Tutto questo cercando sempre di aprirsi all’umanità intera, con grande umiltà ed empatia. Qualsiasi cosa abbia fatto, in ogni strabiliante fase della sua vita la messa a fuoco era sempre lì: sull’umanità più pura, vera e inascoltata.
E si è visto. Eccome se si è visto.

Leonardo Sciascia, nel catalogo della Carmi dedicato alle Acque di Sicilia, scrive:
Senza venir meno alla sua natura e al suo assioma, la fotografia – un insieme di fotografie – può parlare di poesia – cioè mito, memoria, sentimento – invece che di prosa – e cioé ragione, storia, condizione umana.

Se posso permettermi di partire da questa considerazione, credo che Lisetta Carmi nella sua vita abbia fatto proprio questo: prendere la ragione, la storia e la condizione umana rendendole mito, memoria e sentimento.
Attingiamone tutt*, al grande, immenso patrimonio che ci ha lasciato. Con quello che ha fatto, con quello che è stata.

Autrice: Sylvia Townsend Warner
Editore: Adelphi
Pagine: 176
Prezzo: 11,00€

 

Bosco una volta, bosco per sempre

𝑺𝒐𝒏𝒐 𝒖𝒏𝒂 𝒑𝒂𝒓𝒕𝒆 𝒅𝒊 𝒒𝒖𝒆𝒍𝒍𝒂 𝒇𝒐𝒓𝒛𝒂 𝒄𝒉𝒆 𝒅𝒆𝒔𝒊𝒅𝒆𝒓𝒂 𝒆𝒕𝒆𝒓𝒏𝒂𝒎𝒆𝒏𝒕𝒆 𝒊𝒍 𝒎𝒂𝒍𝒆 𝒆 𝒐𝒑𝒆𝒓𝒂 𝒆𝒕𝒆𝒓𝒏𝒂𝒎𝒆𝒏𝒕𝒆 𝒊𝒍 𝒃𝒆𝒏𝒆.

È così che Goethe ci presenta il Mefistofele del suo aricnoto Faust, nel lontano 1808.
Abbiamo preso una delle citazioni più celebri, ma non è certo l’unica a mostrarci un lato del Diavolo che lo rende più umano, più vicino alle donne e agli uomini di quanto non sia Dio. Un diavolo in ascolto, attento ai nostri desideri più intimi, un diavolo che non giudica.

Nel 1926, dopo Goethe (ma ancor prima di Bulgakov con il suo Maestro e Margherita), è stata una donna, Sylvia Townsend Warner, ad attingere a questo immaginario per descriverci un mondo dell’occulto che riscatta da un’esistenza monotona e noiosa, che viene in aiuto, invece di traviare.

In Lolly Willowes, Lucifero, amoroso cacciatore, insegue e tende i suoi agguati non a delle povere prede indifese, ma agli amanti del crepuscolo, a coloro che quando sentono i suoi sussurri si fermano ad ascoltare rapiti, invece di alzare la voce e affrettare il passo. E così, le donne che cadono tra le sue braccia affettuose diventano streghe: non per fare del male, ma per emanciparsi, “per mostrare il loro disprezzo per chi finge che la vita sia un luogo sicuro, per soddisfare la loro passione per l’avventura”.

Sylvia Townsend Warner, sfidando e precorrendo i suoi tempi, ci porta tra le nuvolose campagne inglesi per raccontare la trasformazione e la presa di coscienza di Laura Willowes, che riuscirà a svincolarsi dalla tradizione, dall’opinione pubblica e dalla famiglia, per ascoltare la sua vocazione e diventare finalmente dinamite pronta ad esplodere.

Tremate tremate, le streghe son tornate.
Non di terrore, però.
Tremate di fervore e di eccitazione.

Autrice: Katerina Tuckova
Editore: Keller
Pagine: 416
Prezzo: 18,50€

 

Fra poco saprai tutto, bambina mia

Dai nostri avi abbiamo ereditato le cose più disparate: uno specchio antico con il manico d’argento, lunghi cappotti fuori moda, soprammobili al limite del cattivo gusto, un modo di toccarci il naso quando siamo nervosi, la forma arcuata delle sopracciglia, talvolta anche dei debiti che non possiamo pagare.

Dai nostri antenati, però, non ci rimane soltanto il patrimonio materiale o genetico: perché i nostri avi ci lasciano anche sempre qualcos’altro, qualcosa che a volte può essere sia una fortuna che una maledizione.

Ed è questo che accade a Dora, ultima discendente di una stirpe di donne, le «dee», dotate di poteri incredibili e magici: conoscono le erbe e le loro proprietà curative, possono prevedere il futuro e, attraverso delle formule magiche, possono persino placare le tempeste.
Queste donne, che vivono in una remota regione dei Carpazi bianchi, sono sopravvissute all’avvento del Cristianesimo, alla caccia alle streghe, all’interdizione dei sacerdoti, alle ricerche misticheggianti dei nazisti, ma non al regime comunista. Il regime condanna le dee, sopprime le loro pratiche, i loro saperi: tutto finisce sotto le indagini e il controllo delle autorità socialiste.
Dora si mette meticolosamente in cerca del passato genealogico delle dee, rincorre la memoria scavando nei documenti d’archivio, nell’origine delle persecuzioni, nei racconti elusivi delle dee superstiti, nei frammenti di storie raccolte ascoltando testimonianze e nei testi che la rapiscono così tanto da farle passare nottate insonni, notti in cui mischia l’invenzione alla realtà, i sogni agli eventi realmente accaduti.

E Dora, che crede di non aver ereditato nessun potere dalle proprie antenate, scopre che non è del tutto così. Attraverso la ricostruzione del passato e dei destini delle sue ave può fare una cosa splendida, meravigliosa: può riabilitare il nome delle dee, raccontare al mondo la sapienza di queste donne, far emergere le loro storie dalle tenebre in cui erano sprofondate.

Resistere, continuare ostinatamente a cercare e impedire che qualcosa venga dimenticato, frantumato e oscurato è l’eredità più importante che ci viene affidata.
E non è un atto magico questo?

Autrice: Olga Tokarczuk
Editore: Bompiani
Pagine: 272
Prezzo: 18,00€

 

Potrei vivere in un crepuscolo eterno

Immaginate un villaggio rurale, al confine tra Polonia e Repubblica ceca, un luogo in cui l’inverno dura sei mesi e il gelo ci ricorda tutti i giorni quanto il mondo sia ostile.
In questo clima avverso inserite uomini torvi e schivi, il cui passare dei giorni è scandito dalla caccia e dalla partecipazione a qualche festività religiosa.
Aggiungete ora un elemento contrastante: Janina, un’eccentrica settantenne che vive da sola ai margini di un bosco, ingegnera in pensione e insegnante d’inglese, traduttrice delle poesie di W. Blake, appassionata astrologa.

Ecco, in questo scenario dominato da notti lunghissime e da una neve così copiosa da ovattare persino il pensiero, vengono trovati, senza apparente spiegazione, i cadaveri di alcuni cacciatori.
Janina inizia ad interessarsi alle indagini, convinta che a commettere gi omicidi (no spoiler) siano gli Animali che, come per castigo, vogliono vendicarsi degli Uomini.
Ma le morti misteriose e le indagini sono solo una parte dell’intreccio.
Attraverso la voce e la narrazione di Janina è come se ci mettessimo i suoi occhiali di bizzarra settantenne per osservare la realtà. Ma già, che lenti usa Janina?
Una è l’astrologia: analizza le carte astrali come mappe geografiche, rintraccia gli influssi dei pianeti, delinea personalità e persino la possibile data di morte delle persone. Il tutto per avere, quantomeno, un’idea di cosa aspettarsi dal caos della vita.
L’altra lente, invece, è la letteratura. Se il mondo è incomprensibile, attraverso la traduzione della poesia Janina riesce a scovare qualcos’altro: collega elementi che apparentemente sono slegati, guarda le frasi da un lato diverso rispetto a quello iniziale, abbandona legami inutili e, dopo tanti tormenti, riesce a trovare qualcosa di completamente nuovo e bellissimo.

Ed è proprio quello che fa Tokarczuk con la sua storia: in mezzo alla selva dell’indecifrabile traccia un sentiero nuovo, non calpestato, in cui muoversi come in un paesaggio magico, come in una fiaba dei fratelli Grimm.
Ma mi raccomando, non fate come Hansel e Gretel: non sbriciolate pezzetti di pane per ritrovare la via di casa, perché a casa non ci vorrete più tornare.